La borgata di Prato Rotondo
racconto fotografico di Mauro Navarra
Le corse con le mani alzate prima che la palla, attraversando una porta immaginaria, rotolasse fino in fondo alla scarpata sottostante. Questo è il mio primo ricordo della borgata di Prato Rotondo; una striscia di terra che dal Nuovo Salario sprofondava fino ai Prati fiscali.
Correva l’anno 1967 e correvamo anche noi ragazzi del quinto anno delle elementare che anticipando i tempi e con nel corpo gli embrioni della ribellione, oltre che i primi peli, avanzavamo desiderosi di vivere la vita.
I momenti di svago, allora, oltre al cinema la domenica erano tutti in quelle partite interminabili che, con continui cambi di giocatori, dal primo pomeriggio duravano fino all’ora di cena. Il nostro campetto era il piazzale della scuola Angelo Mauri oggi uno stipato parcheggio (Dante Gallani).
Correva l’anno 1967 e correvamo anche noi ragazzi del quinto anno delle elementare che anticipando i tempi e con nel corpo gli embrioni della ribellione, oltre che i primi peli, avanzavamo desiderosi di vivere la vita.
I momenti di svago, allora, oltre al cinema la domenica erano tutti in quelle partite interminabili che, con continui cambi di giocatori, dal primo pomeriggio duravano fino all’ora di cena. Il nostro campetto era il piazzale della scuola Angelo Mauri oggi uno stipato parcheggio (Dante Gallani).
I palloni, quelli di gomma reperibili: il super tele, il derby, il super santos e a seguire quelli più pesanti, il dribbling (arancione) e il più ambito di tutti, il mitico river plate da 420 grammi. Che botta quando ti arrivava in faccia! Per le porte erano sufficienti i giacchetti, amorevolmente lavati e stirati dalle mamme, gettati a terra al posto dei pali o un paio di blocchetti di tufo dei numerosi cantieri adiacenti. E si perché tutto attorno colava cemento.
Con la massiccia cementificazione degli anni ‘60, molti terreni venivano regalati dai vecchi proprietari con la benevolenza degli immobiliaristi a enti (…) caritatevoli. Operazioni che come nel caso del complesso dei salesiani avrebbero accelerato l’avvio da parte del Comune di tutte quelle opere di urbanizzazione lungo mirabili e appetibili direttrici ancora deserte sulle quali costruire migliaia di appartamenti: oggi via Monte Cervialto, via Vaglia, via Suvereto, Via Piero Fòscari. Una vera manna per i costruttori romani. Tra il 1959 e il 1963 venne realizzato a partire da Val Melaina dove negli anni ’30 vennero assegnate le prime case popolari, il complesso edilizio del villaggio Angelini dal nome dell’allora sottosegretario ai Trasporti.
Villini, palazzoni e torri dove furono trasferiti i ferrovieri espropriati da Piazza Misurata (via Benadir) da via Regina Margherita (ENEA) e dove trovarono alloggio molti operai e macchinisti provenienti da diversi paesi del Lazio. Il villaggio Angelini, racchiuso tra via Ivanoe Bonomi, via Pier Ludovico Occhini e via Ottorino Gentiloni era un colle dove la strada girava su se stessa con un’unica fuga alternativa verso la Salaria rappresentata proprio dallo sterrato via di Prato Rotondo.
Per una volta lasciamo che la che la palla continui la sua corsa ed immergiamoci nella storia della borgata.
Il primo nucleo di abitanti giunse a Prato Rotondo proprio attraverso la Salaria intorno alla metà degli anni ‘20. Famiglie provenienti dalla Sabina, dal Viterbese, dall’Umbria e dalle Marche dall’Abruzzo e dal Molise. Costoro erano per lo più contadini e manovali che spinti dalla miseria si trasferivano nella città eterna in cerca di condizioni di vita migliori dando fondo a tutti i propri risparmi per assicurarsi con le prime rate l’acquisto di piccoli lotti di terreno agricolo. Costruirono così a partire da via dei Prati Fiscali modeste abitazioni in mezzo al nulla, all’interno delle quali alloggiavano fino a 4 nuclei familiari e realizzarono a loro spese le condotte idriche indispensabili. Riuscirono a portare anche l’energia elettrica.
Il primo nucleo di abitanti giunse a Prato Rotondo proprio attraverso la Salaria intorno alla metà degli anni ‘20. Famiglie provenienti dalla Sabina, dal Viterbese, dall’Umbria e dalle Marche dall’Abruzzo e dal Molise. Costoro erano per lo più contadini e manovali che spinti dalla miseria si trasferivano nella città eterna in cerca di condizioni di vita migliori dando fondo a tutti i propri risparmi per assicurarsi con le prime rate l’acquisto di piccoli lotti di terreno agricolo. Costruirono così a partire da via dei Prati Fiscali modeste abitazioni in mezzo al nulla, all’interno delle quali alloggiavano fino a 4 nuclei familiari e realizzarono a loro spese le condotte idriche indispensabili. Riuscirono a portare anche l’energia elettrica.
Al di là di capire il piacere che avrebbero fatto ai futuri speculatori, secondo la mentalità del tempo, forse non molto diversa da quella attuale, potevano finalmente chiamarsi “proprietari” tanto è che cominciarono anche ad affittare ad altri forestieri le stanze che via via si liberavano per le necessità imposte dal crescere delle famiglie. Più tardi il vasto terreno sovrastante venne colonizzato da quelli che i primi residenti chiamavano gli abusivi. Quelli cioè che il terreno “agricolo” per costruirci sopra la casa non lo avevano comprato ma lo avevano occupato.
Fu poi la volta di alcuni sfollati a seguito del bombardamento di San Lorenzo a cui si unirono le molte famiglie che per fuggire dalla fame e dalla miseria del dopoguerra si riversarono con speranza nella capitale. Il grosso però arrivò negli anni ’50 quando, richiamate dalla ricostruzione e dal boom economico, grandi masse di manovali, muratori, piastrellisti, carpentieri, stuccatori arrivarono a Roma dalla Sicilia, dalla Calabria dalla Puglia e dalla Sardegna. Il quadrante nord-est di Roma era allora in forte espansione abitativa. Tutta mano d’opera a basso costo subito impiegata nell’edilizia residenziali. Uomini che costruivano case a cui non potevano accedere. Case in cui qualche moglie riuscì sì ad entrare ma soltanto per fare le pulizie. E allora la baraccopoli di Prato Rotondo cresceva.
Qualche fila di mattoni recuperati nei cantieri, cartoni e materiale di risulta di ogni genere, per tetto una lamiera che rifletteva all’alba la luce del sole e la baracca era pronta. Quasi 400 famiglie, 1.500 persone senza acqua, elettricità e servizi igienici. Anziani e bambini tra polvere, fango immondizia e topi. Continuamente minacciati dalle ruspe, divisi nei dialetti, nella religione e nella politica e sopraffatti dalla prepotenza dei vari negoziatori, videro una luce di speranza quando si presentò da loro un uomo, uno straniero che riuscì a riunire tutta la comunità e a lottare per uno scopo comune.
Don Gerardo Lutte, il belga, il rosso, il prete comunista. Così lo chiamavano i detrattori; il sacerdote di Prato Rotondo scomodo ai vertici ecclesiastici perché con forza si batteva per il riconoscimento dei basilari diritti dei baraccati e per il recupero di quella dignità ormai strozzata dalla indifferenza del clero e dalla speculazione edilizia degli anni ’60 che sempre di più accerchiava i loro fatiscenti ricoveri.
Tutto ebbe origine dalla donazione del Marchese nonché senatore Gerini dei terreni edificabili a nord-est di Roma a favore dell’Istituto Salesiano per le Missioni, un ente dall’impronta religiosa per un bilancio coperto a Roma da particolari e conosciuti benefattori. Il principio era sempre lo stesso, donare terreni alla chiesa e alle varie confraternite ottenendo in cambio l'edificabilità delle aree circostanti. Con la vendita di tali terreni i salesiani hanno potuto costruire chiese con grandi oratori e dormitori in diverse zone della città.
E’ proprio in uno di questi istituti moderni, nuovi, spaziosi e pieni di servizi, oggi Università pontificia salesiana, che il prete dei poveri viveva inizialmente insieme ai suoi colleghi professori insegnando pedagogia a studenti che nel futuro avrebbero dovuto istruire e portare “il verbo” ai poveri di tutto il mondo. Scrive Don Lutte in una delle tante lettere inviate ai confratelli e ai suoi superiori “siamo complici di queste forme di speculazione e arricchimento che seppur forse non contrarie alle leggi attuali lo sono dal punto di vista evangelico. I poveri non possono credere a quelli che stanno, anche senza saperlo o volerlo, dalla parte dei ricchi.
Con lo sfruttamento economico delle donazioni si costruiscono istituti sfarzosi, esenti da tasse senza utilizzare nessuna parte del denaro per costruire una casa ai 100.000 senza tetto presenti nella nostra città”. Più volte questo uomo onesto è stato invitato, con ogni mezzo ad abbandonare la sua gente. Morale dopo anni di lotta, occupazione di alcune case popolari al tufello e della adiacente scuola Angelo Mauri preclusa fino al 1970 a bambini “brutti sporchi e cattivi”, Lutte dapprima sospeso a divinis venne rintegrato a sacerdote della piccola comunità con cui nel frattempo aveva deciso di vivere.
Di quel periodo, ricordo bene l’ ONARMO (oggi riconoscibile dal bel murale della locomotiva disegnato sulla facciata di via Faldella e dal binario innalzato a simbolo di appartenenza), tuttora locale del dopolavoro delle ferrovie dove gli studenti delle superiori facevano un po’ di doposcuola ai figli dei baraccati e dove le loro madri potevano accedere ad un improvvisato consultorio; le prime feste da ballo nel quartiere e le prime cotte. Poi l’incontro con Don Renato amico di Don Gerardo e la domenica, nell'attesa del completamento della chiesa di San Frumenzio, la messa nei locali di via De Nava al Nuovo Salario (oggi occupati da un gommista e da un bar ) dove vidi per la prima volta una mostra fotografica sul quartiere che mi segnò profondamente.
Chissà che fine avranno fatto quelle stampe. Era il 1967, avevo 10 anni. Il mio primo impegno nel sociale con le incursioni a Prato Rotondo per portare ai ragazzi libri, quaderni e matite con mia sorella e le amiche che già frequentavano le magistrali e infine la gita ad Arcinazzo per incontrare i figli dei baraccati portati lì in vacanza. Qualche pugno, nuove amicizie e la camicia di raso bianca della festa diventata per metà verde a seguito dell’immancabile partita a pallone sui pratoni infiniti.
Da adolescente poi un altro ricordo mi lega alla borgata. Il boom dei complessi musicali e la conoscenza del sig. “frocicchio”; tarchiato, orecchie a sventola e immancabile cappello da “laziale”, così veniva chiamato l’arrafone di Prato Rotondo che da perfetto businessman sfruttava la situazione affittando fatiscenti locali dentro i quali in tanti provavamo a suonare un pò di pop da portare nelle scuole, sempre con l’intento di avere più chance con le ragazze. Sono fisse che rimangono.
In finale comunque la battaglia del prete appoggiato dalla sezione del P.C.I. di Val Melaina fu vinta e nonostante alcuni baraccati non avrebbero voluto allontanarsi dalla zona dove nel frattempo avevano trovato un lavoro, negli anni ‘70 la maggior parte di famiglie accettò di trasferirsi nelle case popolari assegnate alla Magliana. Don Gerardo Lutte ben a conoscenza ormai di non essere più gradito dai salesiani, dopo aver accompagnato la sua comunità nei nuovi e dignitosi alloggi si allontanò definitivamente dall’Italia. Tornò in Belgio da dove ripartì dapprima per il Nicaragua e poi per il Guatemala. Qui, attraverso l’associazione Mojoca si è impegnato con tutte le sue forze, da vero combattente, al recupero dei ragazzi e delle ragazze di strada
Gran parte di quel terreno che alle prime piogge si trasformava in un torrente vero e proprio fu raso al suolo e rimasero in piedi soltanto le vecchie case di proprietà che resistono ancora nel tempo.
Gran parte di quel terreno che alle prime piogge si trasformava in un torrente vero e proprio fu raso al suolo e rimasero in piedi soltanto le vecchie case di proprietà che resistono ancora nel tempo.
E sì, di acqua ne è scesa molta da via Angelo Mauri a via dei Prati Fiscali ed oggi via di Prato Rotondo seppure cambiata mantiene ancore qualche minima traccia dei miei trascorsi. Scendendo, si inala l’odore del pane appena sfornato proveniente dal locale all’angolo dx mentre dalla parte opposta che guarda verso le case dei ferrovieri si può sotto il livello della strada scorgere ancora qualche casetta ormai fatiscente del tempo che fu. Per il resto le altre abitazioni hanno l’aspetto di piccoli villini con annesso posto auto o garage. Proseguendo su via delle Cave Fiscali incubo di trasportatori e corrieri in quanto si divide tra i due lati dei Prati Fiscali, resiste ancora qualche palazzina d’epoca di particolare attenzione. In fondo, poi, su via dei Prati fiscali Vecchia un paio di locali che un tempo fungevano da sosta e ristoro per i viandanti che provenivano dalla via del sale sono stati restaurati ed oggi ospitano una ottima pizzeria ed un gustoso ristorante di mare.
Proprio da quest’ultimo “Il borgo del Pesce”, alzando lo sguardo sui vecchi prati situati sopra le grotte di tufo di quella collina in parte franata nel 1967 e a cui seguì da parte dei baraccati sfollati l’occupazione di uno stabile di via Monte Massico, le nuove case residenziali che tanti anni hanno dovuto attendere oggi si sono prese con opulenza una bella rivincita. Ora l’accerchiamento è completo e i popoli del sopra e del sotto hanno trovato nell’indifferenza il metodo più semplice di coesistere.
Il piccolo villaggio non è più chiassoso e animato come un tempo e chi entra o esce di casa lo fa velocemente, quasi per passare inosservato. Sul piazzale di via Angelo Mauri i bambini vengono “catapultati e ritirati” velocemente dalla scuola strusciando con zaini, trolley e cartelle le numerose auto in movimento o parcheggiate in doppia fila.
Da quei pomeriggi di primavera a giocare a pallone o a biglie o a “punteruolo” su quella terra di riporto oggi sistemata a piccolo parco sembra essere passato un secolo. In effetti sono passati più di 50 anni.
Molti segreti, molti vite vissute e passaggi di tempo si sono ormai sedimentati. E’ sempre doveroso comunque mantenerne la memoria. Questo ho documentato.
Mauro Navarra
Da quei pomeriggi di primavera a giocare a pallone o a biglie o a “punteruolo” su quella terra di riporto oggi sistemata a piccolo parco sembra essere passato un secolo. In effetti sono passati più di 50 anni.
Molti segreti, molti vite vissute e passaggi di tempo si sono ormai sedimentati. E’ sempre doveroso comunque mantenerne la memoria. Questo ho documentato.
Mauro Navarra
Per alcune immagini non di mia proprietà ma attinenti al racconto ho utilizzato materiale trovato in rete, in particolare foto di Rodrigo Pais, archivio L' Unità, Istituto Luce, P.C.I.